Due sono stati i soggetti che nella preistoria sono stati raffigurati, probabilmente con analogo propiziatorio significato, sulle pareti della caverne: le donne, nelle vesti di dee madri portatrici di fecondità, e gli animali simboli di benessere in quanto fonti di cibo.
Bisonti, cavalli, giraffe e altri animali, nelle grotte di Lascaux Aurignac, Altamira (anche in Italia, ad esempio la grotta Romanelli in Puglia), sono sempre facilmente segno di una curiosità, di una attenzione e di una osservazione scrupolosa, senza le quali le immagini non potrebbero essere così efficaci.
Inizialmente quindi la funzione di rappresentazione degli animali è fortemente strumentale, per propiziarsi una caccia e forse anche per indicare posizione delle mandrie da cacciare. In tempi molto più recenti, quando il dipingere era già divenuto uno strumento di raffigurazione della bellezza, o a volte momento didascalico in racconti con riferimenti mitologico-religiosi, gli animali vengono introdotti nei dipinti in contesto, a coronamento e completamento della rappresentazione: in una scena di caccia o in un’arca di Noè è ovvio che ci siano. Ma la presenza degli animali serve anche ad aumentare la realtà della rappresentazione iconografica, anche se non strettamente indispensabile: l’adorazione dei magi prevede i pastori, quindi le pecore.
L’introduzione degli animali nei quadri può anche avere una funzione allegorica, o solo come trait d’union: Raffaello rappresenta la Madonna su un prato con Gesù Bambino e il piccolo Giovanni Battista, i due bambini sono collegati fra di loro da un cardellino. Il cardellino visto come cardine della scena può far pensare ad un nascosto significato allegorico, ma a noi non interessa, importa che sia un “bel” cardellino.
Senza dimenticare la Dama con liocorno.
Moltissimi sono gli artisti che hanno introdotto animali nelle loro opere, dai già ricordati nostri antenati di Lascaux a Pisanello, Stefano Della Bella, Picasso, Degas, Giovannino de’ Grassi, Tiepolo, Brancusi, Bruegel, Toulouse-Lautrec, Giacometti, Paolo Uccello, Leonardo e chissà quanti altri.
Un ricordo particolare ad un disegno di Jacopo Carracci, detto il Pontormo, di un cane così ramingo che forse è quello descritto da John Steinbeck nel suo “In viaggio con Charlie”, e che piacerebbe a Beppe Fenoglio.
Lo studio estetico dell’animale, fu operea di animalisti cinquecenteschi come i Bassano, Vincenzo Campi, i Breughel, poi dei maestri fiamminghi (Francesco Snyders, Giovanni Roos, Pietro Boel). Il naturalismo impregnava l’atmosfera filosofica, letteraria ed artistica del Seicento, e nei paesi di grande tradizione culturale e commerciale (in Germania, nei Paesi Bassi e nelle Fiandre ) la iconoclasta rivoluzione luterana aveva sostituito alle grandi e fredde composizioni religiose la “minor pittura”, il quadretto di genere.
Il gusto dei nuovi tempi era sceso in Italia per le vie commerciali, che non possono essere fermate, trovando terreno fertile a Venezia in Jacopo Bassano ed altri.
Un pittore “animalista” non deve necessariamente essere un “realista”, la bravura dell’Artista in quanto tale fa capire l’essenza dell’animale, come nel caso del cane di Alberto Giacometti, più fantasma alla ricerca della traccia olfattiva del mondo che essere appartenente al regno animale.
O ancora la Foca di Costantin Brancusi che non ha bisogno di essere descritta nei dettagli in quanto forma parlante che con la sua instabilità apparente crea il segno del movimento, ed il moto, anche quando impercettibile, è il segno che siamo vivi (non solo cogito, ma anche ambulo ergo sum).
Questi pittori e scultori si sono interessati, sempre, a un modo di stare al mondo, di muovere la testa, di guardare le cose, di esistere in quanto animali. E per studiare tutto questo, per poterlo in qualche modo riprodurre dovevano mettersi nei loro panni: quasi uno studio d’attore, necessario all’imitazione.
Questo è un modo di conoscere che si esercita nel disegno dal vero o nel ripercorrere una forma a lungo studiata, a memoria. È il modo delle arti ed è un modo di conoscere che aumenta le prospettive perché costringe a immaginare punti di vista non strettamente umani.
Trovo nei pittori naturalistici, negli animalisti ed in particolare nei lavori di Paolo Paolucci, a cui va il mio omaggio modesto, riconoscere un interesse non edificante: un interesse e basta, una curiosità per chi è altro da noi, fratello e diverso.
La vera dimostrazione di un interesse per gli animali in quanto tali, gratuito, è nella rappresentazione diretta: senza contesto, senza altro che gli animali a soggetto ed il loro ambiente naturale (che però bisogna conoscere bene, come bene lo conosce appunto Paolucci). Questa “passione” si svela in innumerevoli fogli di studi e in corposi taccuini.
Leonardo, principe dei pittori e paladino della pittura in quanto scienza, nel suo Trattato scriveva “La deità che ha la scienza del pittore fa che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina: imperocché con libera potestà discorre alla generazione di diverse essenze di vari animali, piante, frutti, paesi, campagne, ruine di monti, luoghi paurosi e spaventevoli....”, e non è proprio quello che Paolo Paolucci fa nelle sue opere, il discorrere delle essenze dei vari animali, e delle piante e delle campagne che a loro fanno corona?
Paolucci è profondo conoscitore della natura, dei colli Euganei innanzi tutto a cui ha dedicato diversi volumi di studi e fotografie (ricordo qui quello sulle orchidee dei nostri colli), ma anche della flora e della fauna che comunque ha sempre studiato attentamente di persona usando i “fogli” ed i “taccuini” prima ricordati, il suo lavoro è mostrarci gli animali inseriti nel loro ambiente naturale (ricordo che è anche ottimo ritrattista come mostra il ritratto di “Charlie”) facendo attenzione anche ai minimi particolari: dal riflesso sull’acqua delle avocette o dei cavalieri d’Italia al piegarsi delle foglie per l’azione di un vento che si indovina.
L’opera di Paolucci persuade nella verosimiglianza: il sembra vero suscita quella meraviglia che si voleva fine dell’arte; ma sembra vero vuol dire spesso sembra vivo, ed allora ci si aspetta che il gufo catturi la sua preda, o che la lepre corra via zigzagando per seminare gli inseguitore. Ed ancora ci si meraviglia di non sentire il bramito del cervo in autunno, o l’odore del vecchio castagno.
Per l’occhio e la gioia dell’osservatore Paolo Paolucci nei suoi lavori ha saputo risaltare, in forma armoniosa, un suggestivo paradiso agreste dove l’animale libero è signore e padrone.
Ma non dimentichiamo che la natura è fatta di lacrime e sangue.
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- Scritto da Manlio Gaddi
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