Il primo incontro è l’eco di un ricordo:
era l’estate del quarantacinque.
Dipinse me poppante ai grandi seni
e poi, occhi sgranati, un diavoletto
stretto nel pugno e un bianco bavaglino.
Avevo un anno e questo fu l’ingresso
nella pittura vista col suo sguardo.
(Nel testamento mi descrisse esperto
della pittura, della sua pittura).
Così, successe un giorno di gennaio
che dipingevo aringhe e una luna,
mi allontanai un momento e, al mio ritorno,
trovai le aringhe poste in diagonale
e la luna ridotta ad un barlume.
Spesso ripenso a questo suo intervento:
voleva certo dirmi: «crea tensione!»
e «lascia si supponga, non mostrare!»
«Per le ombre del viso: toni freddi!»
fu l’unico consiglio che mi diede
nella Scuola di Alassio, all’aria aperta.
Sulla riva del mare creavamo
statue di donne che marea scioglieva.
Tra le cabine, un giorno in gran segreto,
comprò zanne d’avorio: era una truffa!
Giocavamo a ping-pong fino al tramonto.
Col cavalletto in spalla e un canestro
ripieno di tubetti e di acquaragia
lo accompagnavo dentro la pineta:
sullo sgabello, il sigaro toscano,
guardava a lungo il tronco e già imbruniva.
Indifferente alle zanzare e al buio,
cominciava a tracciare ondose forme
con lenti gesti sulla tela bianca.
Devotamente, con la pila accesa,
tornavo per portare dentro casa
la grande tavolozza e il trofeo.
Con la colla di pesce e il gesso in pani
imbiancavamo tele sui telai.
Un giorno che Calvino sul sentiero
saliva, mi dispose sopra un ramo,
e « Guido cosa fai?» « Faccio il barone
rampante» e tutti e tre fummo felici.
(«Forse fai bene a fare il Bar-mitzvà…
perché ci sono stati i crematori…»)
Guardava i burattini copulanti
che Lisa e io agitavam crudeli
mentre radio-Albania gracchiava invano
inni solenni e vuoti nella notte
e mi chiedeva «cos’è Rivoluzione ?»
e lasciò una tela non finita
perché erano entrati i carri-armati
a Praga ed il Senato lo chiamava.
Neri occhialini erano i suoi occhi
quando gli raccontavo degli allergici:
nel Quaderno a Cancelli ho ritrovato
le mie lezioni mediche traslate
nel doppio stato di allergici e diabetici.
Era il tramonto e le bandiere rosse
e quelle della FILEF e dei Comuni
Aliano coloravano in silenzio:
parlai delle lentiggini infantili
del grande corpo che stava per lasciarci.
«Mi vogliono portare» disse in sussurro
«alla Mater di dio, la Mater Dei…»
Nella notte dell’ultimo dell’anno
un aereo era pronto laggiù a Mosca,
con Negoskj, rianimatore illustre.
L’ultimo incontro è stato troppo breve:
si inaugurava a Mantova la Mostra,
mi regalò il catalogo ed entrò
nei sassi di Matera (era dicembre).
La notte era gelata e gli intestini
degli agnelli lattanti consumati
col vino rosso e i pomodori secchi
lo accompagnavano nel giro coi compagni.
(Affabulando mangiava ad una ad una
cento polpette sotto il pergolato).
Guardava pensieroso il paesaggio
del golfo e dell’isola di Capri,
poi scese a ricordare Scotellaro
in una sede ostile e ci fu rissa.
Voleva che leggessi , lui malato,
l’ultimo suo discorso agli emigranti.
Oggi lavoro nella Fondazione.
Firmo le autentiche e sempre mi dispiace
se vedo un brutto falso impiastricciato.
(Napoli, 10 dicembre 2012)