Si danno molti modi di vivere l'arte e si danno molti modi di vivere una religione. Ma vivere religiosamente l'arte è un modo ben preciso e profondo: è un impegno e un compito di tutta una vita. È una scelta d'una interna natura che decide della dedizione totale del proprio tutto alla sacralità di un Tutto: un atto di donazione che è richiesta di completezza, di totalità, persino di eterno. Dunque un alto ideale, ma un ideale che non è fuga dal mondo, nonostante la sua apparenza mistica, perché riguarda non già la negazione delle materie e la semplice ascesi contemplativa, bensì il fare, l'operare concreto e attivamente creativo di ogni giorno nel divenire metamorfico del nascere e del crescere delle forme. Ebbene: Antonio Morato - pittore patavino d'elezione (nato ad Este il 17 marzo 1903, trasferitosi a Padova nel 1918 ed ivi morto il 13 marzo 1989) appartiene a quella nobile e sparuta schiera di artisti che per tutta la vita vivono e professano, con gli scritti e con le opere, una autentica e non mai tradita religione dell'arte. Infine, diciamo che - fatte le dovute proporzioni - egli appartiene alla razza dei Van Gogh. Come per Von Gogh, le sue origini sono fondamentalmente immerse nell'esperienza religiosa. È dal mondo e dalla cultura religiosa (i primi studi sono - e lasceranno una indelebile impronta - in una scuola teologica di Este) che Antonio Morato ricava la bussola del suo cammino teorico e pratico, di pensiero e di lavoro. La pittura nasce - in analogia con quanto le lettere di Van Gogh ci hanno rivelato e per quello che gli scritti di Morato ci dicono - come un passaggio naturale dal pensiero e dalla prassi religiosa alla pratica dell'esperienza artistica, per una conversione del divino teologico in divino artistico. Questo è quanto si ricava leggendo le annotazioni e le meditazioni che ogni anno Morato veniva consegnando ai fogli di quelle Agende annuali che le Banche regalano ai propri clienti. Si tratta, per quanto s'è potuto sapere, di una ventina di volumetti rilegati, zeppi da cima a fondo di annotazioni, pensieri e sviluppi di una forma di filosofia dell' arte e dell' esistenza, a volte alternate con schizzi colorati (forse idee colte sul nascere e bozzetti per quadri), una vasta messe di scritti dai quali s'alzano i profili più intimi ed autentici dell' anima genuina di un uomo e delle ragioni che fondano l'opera e le forme dell'artista.
È per non aver tenuto conto - o per aver del tutto ignorato - la presenza e l'importanza di questi scritti che Antonio Morato è risultato spesso sottovalutato, fino a sentirsi, in vita, un "incompreso" (come più volte aveva affermato). Non per nulla gli onori della sua città gli giungono, dopo aver dato una validissima opera tutt'altro che priva di ufficiali riconoscimenti, pubblicamente soltanto con la grande Antologica che il Comune di Padova tardivamente aveva organizzato nello storico Palazzo della Ragione tra marzo e aprile del 1987, ormai a due soli anni dalla morte. Ma gli stessi scritti giornalistici di presentazione, o di nota commemorativa, appaiono come rapidi sguardi di superficie e, privi come sono dell' essenza rivelatrice dell'uomo e della sua arte che è racchiusa negli scritti delle Agende, nei casi migliori non possono che limitarsi a sia pur puntuali analisi formalistiche esterne. Morato è un solitario. Natura schiva e tutta raccolta nella interiore riflessione sui problemi interrogati continuamente con tensione teoretico - difficili problemi sul senso del vivere e del morire, sui destini etici e religiosi dell'operare, sul mondo delle passioni e dell' arte -, lassù, nell' alta mansarda patavina di Via Nazario Sauro 7, da vero "monaco innamorato del l'arte", ogni giorno, dopo l'insegnamento di Storia dell' Arte nei Licei cittadini, egli, da vero solitario, si ritira e dispiega, nei pensieri e nelle opere pittoriche uno sua lunga, silenziosa meditazione. Legge, scrive, dipinge con l'animo sgombro da ogni cura interessata, egoistica o pettegola dei rumori e dei commerci del mondo. Il discorrere con sé stesso è un discorrere col destino; è, in ogni momento, l'interrogazione interiore dei grandi problemi. Non gli interessa uscire nel mondo, non gli interessa viaggiare. Quando, nel 1937 da Milano l’amico Renato Birolli, per averlo apprezzato lo invita a partecipare al Movimento appena fondato di "Corrente" - ed era una offerta notevole foriera di riconoscimenti più vasti e di più valide aperture -, tranquillamente lascia cadere l'invito con l'alibi del solitario che non ama viaggiare, cioè non desidera uscire dal suo guscio protettivo.
Uno dei termini che più ricorrono nei suoi scritti, accanto a quelli significativi di "Assoluto", Infinito (cercato nella finitezza umana), "Eterno" (vissuto con incontaminata fede nel tempo esistenziale), è il "sintagma" (più specificamente riferito al farsi dell' arte) "forma compiuta" o, meglio, "forma totale'. È questa una formula che nell'intreccio ampio degli scritti assume un significato centrale per lo stessa analisi dei suoi segni e dei suoi dipinti. Quando, intorno ai vent'anni, comincia l'impegno del dipingere, dal prezioso bagaglio letterario e filosofico che possiede trae l'interiore tensione della fede religiosa sul terreno dell' arte, senza per altro che nel nuovo trasporto l'originaria religiosità venga meno per questo. Un medesimo pensiero e una medesima passione passa entro all'atto artistico. Alla fine degli anni Cinquanta, in una delIe pagine dei suoi Diari, scrive: 'L’arte è atto sacro quando si compie, e compie funzione di metamorfosi - dal fisico al metafisico - dal tempo all' eterno - dalla dinamica alla statica - dal piacere alla contemplazione - dal rumore al silenzio - dal relativo all'assoluto - dal particolare alla totalità - dalla Iuce all'ombra - dal giorno alla notte - e sarà compiuta quando sarà 'chiusa' cioè completa, a cui niente è da togliere niente è da aggiungere, quando è una forma totale" (lo sottolineatura è nostra). Un passo, tra altri, che segna una vera professione di fede e offre una precisa chiave interpretativa per entrare nella comprensione del segreto di un cammino di notevole esperienza pittorica. Qui si evidenziano concetti basilari di concezione del mondo e della sfera dell'arte. A partire dalla sua comparsa quel termine, anche in altri contesti degli scritti ripetuto, "metamorfosi", diventa indicativo della considerazione della vita come divenire metamorfico - passaggio continuo da una forma all'altra - e del riflettersi di questo movimento esistenziale nei processi della creazione artistica, dove lo forma deve farsi totale, ossia fermata nel difficile punto della sua completezza o totalità assoluta (sciolta e liberata dal divenire precario della finitezza umana). Attraverso l'intrecciato ricorrere di tali concetti basilari nelle varie tematiche etiche, sociologiche, artistiche, metafisiche e esistenziali di questa lunga, pluriennale operazione della diaristica delle Agende, si snoda un continuo di meditazione che fibra in un'ansia di assoluto, di eterno e di infinito che non è soltanto il portato di una primaria educazione religiosa, ma lo svolgersi di una natura tutta assorta originariamente nell'immaginazione e nella riflessione solitaria dei problemi che corrono tra vita e morte.
Allora bisogna dire che è proprio partendo dal rivolgere l'attenzione a questi scritti che si può comprendere al giusto punto ciò che circola nelle opere di Antonio Morato. Non solo. Ma è solo nell'attraversare questa lunga, pluriennale, "confessione" che si può portare al suo vero significato il giudizio più volte espresso nelle spesso purtroppo disattente annotazioni critiche, un giudizio che, a proposito di una sua formazione scolastica liceale, parlava della sua pittura come di un innesto sulla base letteraria. Che, evidentemente non vuol dire, al di là di un corso evolutivo di studi, lo sbocco in una pittura letteraria. Poiché l'impostazione di una fase "classicista" e di un ritornante fondo classicheggiante non è affatto di derivazione letteraria, ma rimane sempre di schietta costruzione pittorica tecnico-formale, sia che mutui le sue forme da una certa statica monumentalità di vicinanza "novecentesca" (in un certo periodo della suo ricerca), e sia ancora quando, durante lo guerra, scopre Picasso e ne assimila i modi stilistici, traducendoli nella propria legge costruttiva. Questo autodidatta che non sa di Accademie o di scuole o gruppi o poetiche alle quali aderire, che da solo avanza nel padroneggiamento tecnico-formale affrontando i passaggi con persistente coerenza, attraversa con sicurezza gli eventi culturali maggiori del secolo senza mai lasciarsi travolgere o anche solo turbare. Il solitario non solo svolge meditazioni di destino, ma dipana in silenzio con metodica pazienza il filo del proprio personale destino fino alla fine, quando le Parche cessano di tesserlo, troncandolo oscuramente.
Antonio Morato, per i suoi scritti e per le sue opere - e per questo tutto da considerarsi in dinamica unità - merita oggi il ritorno ed il recupero critico della sua personalità introversa e creativa, rimessa a fuoco con tutte le sue luci. L'opera di un pittore non può, se non con danno della sua comprensione interiore, essere letta solamente con l'occhio storico-formalista del vecchio formalismo o della vecchia teoria della "arte senza gli artisti". Van Gogh senza le sue lettere è dimidiato. La pittura è di un pittore e solo da questo prende forma e colore, dal suo corpo e dalla sua anima che secernono le sue opere come l'ape il miele.
Così avviene che soltanto per questo intreccio di situazioni, ben oltre gli eventi esterni di una vita, è possibile cogliere i valori sensibili dei segni significativi, ora dolcissimi nel loro prezioso e vitale incurvarsi (lo curva è la vita, era stato detto) e della musicalità dei colori, il valore espressivo dei bianchi distesi e delle loro luminescenze spaziali, oppure dei neri che sapientemente cerchiano con forza stesure sorde di rossi e di verdi, e che, specialmente nelle tempere (quasi tutte a un alto livello da rivalutare) salgono in dominante: veloci corse non solo spaziali di neri densi, ricchi e sontuosi, preziosi come annunci abissali di forme cosmiche emergenti da un caos in movimento. Morato dimostra qui di aver assimilato i neri spagnoli e di Manet, come pure quelli di Braque e di Picasso (così spesso presenti a partire dagli anni Cinquanta); ed ancora, come, all'interno delle loro cerchiature spaziali, sono presenti i rossi idillici di Matisse o quelli tragici di Soutine (al quale dedica nel 1962 una grande natura morta tutta giocata su una sinfonia di stupendi "rossi", che per l'appunto intitola "Omaggio a Soutine". A dimostrazione che questo autodidatta, rimasto sempre tale anche dopo nella sua formazione esser passato attraverso un diploma non certamente incidente (se non per vaghe atmosfere) suII'apprendistato del futuro pittore, lungo il suo cammino ha saputo certo scegliersi i suoi maestri, dopo Braque, Matisse, Picasso, anche Soutine, più difficile da raggiungere dall'osservatorio provinciale e piuttosto sonnolento come quello di Padova. Uomo di pensiero e di cultura, aveva partecipato da giovane ad un gruppo di amici intellettuali della migliore vita artistica e universitaria della città: un sodalizio che comprendeva figure di vivo discorso, come Marino Mazzacurati pittore e scultore di sicura animazione - Wart Arslan - giovane storico dell'arte di sicuro cammino universitario - e, tra altri sopravvenuti, Gaetano Nasali Rocca, cugino di De Pisis e portatore dai suoi viaggi degli umori della cultura europea e futuro psicanalista. Utili incontri e scambi poco più tardi fecondano il suo terreno di formazione. Tanto che a vent'anni dà vita ad un attivo cenacolo artistico, costituito da pittori come Luigi Strazzabosco (che nel 1921 aveva esposto con il grande amico Gino Rossi); e ancora da Carlo Maria Dormal, Gino Miozzo (che dovrà poi sempre, fattosi noto architetto progettista di molti palazzi, più e più volte chiedere all'amico Morato di ornare le varie costruzioni edificate con affreschi e graffiti). È all'interno di questo cenacolo che, col gruppo degli amici, Morato giunge alla sua prima esposizione pubblica di opere, nel 1925, nella Mostra organizzata nella Sala della Ragione dalla Società Belle Arti.
Nella Sala della Ragione l'anno seguente, 1926, Morato riceve la sua prima consacrazione ufficiale, partecipando con cinque opere alla grande quarta Esposizione dell'arte delle Tre Venezie. Da allora lo sua pittura avanza con acquisti sempre più precisi, secondo una linea ininterrotta di progressioni sempre più solide e preziose, per oltre sessant'anni, o alla fine dei suoi giorni, seminando uno grande quantità opere di ogni genere, disegni, olii, pastelli, affreschi, graffiti murali, vetrate, mosaici, esaltando di figuralità liriche o simboliche pareti e soffitti di chiese e palazzi, a Padova soprattutto ma pure a Bolzano (1937), a Brunico (1938). Dal 1926 agli ultimi anni numerosissime sono le sue partecipazioni a Mostre nazionali, regionali, collettive e personali sparse per tutta Italia. Folta e numerosa di titoli è anche la bibliografia degli scritti, per lo gran parte occasionali e relativi alle Mostre, che riguardano lo sua lunga attività artistica. Non è nell'economia e nell'intento di questo scritto (che altro non vuol essere che un saluto al suo necessario ritorno e un recupero della sua personalità umana ed artistica, attraverso un rapido viaggio nell'interiorità più che un'analisi storicocritica) entrare nel merito di una attenzione particolare e filologica delle singole opere. Cosa che, del resto è già stata fatta in precedenti scritti col dovuto scrupolo.
Questo breve viaggio nell'interno, anziché in un vedere giudicante sull'esterno delle opere, non sarebbe mai compiuto come cammino nell'interiorità. Ma almeno un ulteriore capitoletto è necessario, per poter cogliere, di questo nostro “monaco innamorato dell'arte" (come l'abbiamo chiamato], almeno qualche linea dei suoi rapporti col mondo "fuori", sociale e politico. Ed anche qui è necessario spiare dentro gli spiragli che Morato stesso ci apre nei suoi Diari delle Agende. Non v' è dubbio che, per quel che da questi scritti privati - se non segreti - facilmente si ricava, l'uomo Morato coincideva per intero col pittore Morato: a scorno di tutti quelli anche nell'arte che conducono vita sdoppiata; un occhio alle mode e un occhio ai commerci finanziari e politici, dove le vendite dei quadri e dell'anima sono in ogni tempo largamente diffuse e frequenti. Potrebbe anche essere apparso a qualcuno, guardando alle committenze e alle esecuzioni di opere pubbliche, che, in un certo periodo fossero state messe in atto adesioni ad ideologie non precisamente democratiche: in una parola, dittatoriali e fasciste. Ma Morato è e rimane in ogni momento, nello sua interiore umanità e nella piena libertà della sua arte, uomo non politico, sposo alla solitudine e anche sposo troppo rigidamente ed eticamente fedele, ben lontano da tutti i mescolamenti con ogni tipo di esterna dittatura sull'individuo, e meno che mai con le ideologie e le lotte politiche. Basta verificare questa essenza del suo carattere in alcuni passi delle sue confessioni segrete degli scritti diaristici. In una Agenda dei primi anni Settanta si legge: "II potere è sempre diabolico, perché devia, anche se tenta di unificare, perché sa che questo unificare il tutto nega e distrugge l'individuo e lo sua ricerca di perfezione la sua personalità il suo diritto non alla sola vita ma alla sacralità, alla spiritualità, di sé stesso, membro non negato in una comunità". E subito dopo aggiunge, a verifica della nostra precedente definizione: "l'uomo in sé è uno, è monaco (nostra sottolineatura), ama la solitudine di sé, per essere nella integrità; il suo atto è armonia che edifica e solo lui è arbitro e custode, oggetto e soggetto di sé, non materialismo, non egoismo, perché è vitale in sé e per gli altri, atto ed esempio, parola ed armonia". Dunque, una chiara professione di individualismo dove l'individuo solo è padrone e custode del proprio io inalienabile, come soprattutto compete all'artista. Per il quale il tutto non è il potere, il tutto non è lo Stato ma semmai l'Eros l'amore universale, la capacità di donarsi tutto a un tutto. Sempre nella stessa Agenda leggiamo: "Eros è l'universo stesso, né vi è contraddizione per esso di tempi e di spazi, di dolore in ogni rottura, di gioia in ogni congiunzione". Dove, in questi suoi appunti veloci spicca una ben solida e meditata concezione della vita, risolutamente spiritualistica, dove l'arte viene posta al centro come la più alta esperienza etica di fede e di redenzione. Come, pochi fogli dopo i passi citati, si può leggere: "l'arte è allora fatto compiuto, atto morale, scelta, ed è funzione di amore, di carità, di sacralità, allacciando così il tempo e le forme della vita con lo continuità oltre lo morte". In questa totale immedesimazione e immersione della vita nell'arte ed in questa concezione dell'arte come la più autentica esperienza di immortalità terrena sta tutto il credo di Antonio Morato. La vita è metamorfosi - ripete in più luoghi -, è divenire di corruzioni e rinascite; e questo è il senso della storia. Per questo egli può scrivere: "L'arte, non la storia, è maestra di vita, perché l'arte è totalità dell'essere, la storia è frammento, forse, menzogna, forse, caduta e della vita e dell' essere". E, per quanto si può - e si deve - scorgere dietro il trascorrere affrettato delle parole, non è possibile non vedere qualcosa che travalica un puro teorizzare accademico ed investe non solo il senso vivente dell'esistere, ma lo stesso senso profondo che ha animato tutta l'opera pittorica di Antonio Morato. E tanto più si può apprezzare questa sua fede attiva di una personale religione dell'arte quanto più lo si pensa immersa in quella sua città, in quella Padova che nel secolo ha tratto dalle sue viscere canti carnali e cupe maledizioni, centrali di alti studi e di violenze politiche, quotidiane contraddizioni di commerci puri e impuri, ombre di corruzioni tra i poarticati protettivi e i vicoli di sole e di angiporti. Come già osservavamo in una precedente Nota dedicata a Morato (nel Catalogo della Mostra al Salone del 1987), è veramente notevole constatare come Morato abbia potuto attraversare i traffici, i tumulti, le violenze esplosive (gli sconvolti anni Settanta!) della sua città, senza farsi toccare, portando la sua pittura a salvamento nei silenzi della sua raccolta solitudine, popolata da altre voci ben al di sopra del chiacchiericcio pettegolo e provinciale delle strade, ed erano le voci sacre di un Giorgione, di un Tiziano, di Carrà o Boccioni, di Cézanne o di Braque e di Picasso: un incitamento europeo e un nutrimento di universalità colto nell' aria del secolo.
Molto altro si potrebbe dire se si dovesse scendere ad una analisi particolareggiata delle opere e della loro periodizzazione dal primo giorgionismo alla monumentalità consolidata di paesaggi e figure tratta dal Novecentismo milanese, dall'impressionismo paesistico alla "sinteticità" cubista e picassiana, dal lirismo coloristico delle numerose Maternità agli Espressionismi di Munch e di Soutine, a quel Soutine al quale dedica un quadro (come abbiamo visto) e che certamente Morato deve aver sentito come un fratello spirituale, come lui, natura schiva e solitaria, venuto dal cuore dell'antica Russia e, che, tuffatosi nella cultura abbagliante del Mezzogiorno francese, aveva agitato una grande pittura e violenze di colori, mentre era rimasto isolato e molto a lungo ignorato. Ma, qui basterà il tentativo iniziale di una penetrazione di recupero della personalità dell' artista. È pur sempre un arduo ma appagante impegno quello di lavorare ad una restituzione d'arte e di pensiero. È un esercizio che già altre volte abbiamo praticato anche qui, in Verona (dove ora giunge l'Antologica postuma di Morato), a proposito di casi analoghi (anche nelle date), che giova oggi indagare, delle figure che principalmente hanno operato e maturato lo loro arte nei difficili anni Venti e Trenta. Dopo il già citato OMAGGIO A SOUTINE, del 1962, troviamo uno splendido AUTORITRATTO (databile intorno al 1970) dove l'autore si presenta in veste di pagliaccio da Circo e dove lo violenza espressionistica dei colori - un volto metà bianco schietto e metà rosso sangue fiammeggiante, coi contornati verde acerbo - dice tutta la recitazione della malinconia interiore del pagliaccio rientrato nella sua solitudine dopo lo pubblica esibizione. Una tavoletta 25 per 31 mai esposta (che si sappia) che, con quella esplosione di colore espressionistico, tra Van Gogh, si potrebbe dire, e Soutine, lo dice lunga sull'intima confessione di Morato, che amavo i pagliacci e li andavo a incontrare al Circo, quasi per ritrovarsi in un compagno della propria animo. Una pittura come malinconia congenita attiva e creativo.
Alla fine, bisogna dedurre che Morato era troppo occupato nello perenne ricerca del sé individuale e della sacralità della vita per lasciarsi occupare da qualche altrui dominio, fosse dittatura di persona o di potere politico. Di qui, tutto uno lotta di liberazione della proprio interiorità e dello propria arte, così intensa e raccolta in tutte le sue forze, una vera e propria lotta di Giacobbe con l'Angelo (dell'uomo con lo potenza e la legge divina per uscirne consacrato nel suo destino) un combattimento interiore di un'intera vita silenziosamente sperimentato, tale da non lasciare più spazio alcuno, si direbbe, per una vita esterna tuffata nel confuso rumore della chiacchiera, degli intricati traffici e dei reciproci inganni. Meglio allora dipingere mille volte i diversi volti della MATERNITÀ, dove lo Madre - che sempre ha il volto della moglie (l'unica sua modella) -, e non altro seguire che il filo della sua lunga meditazione fatta salire dall' occasione quotidiana fino alla più alta e più pura sfera dell'interrogazione religiosa e metafisica. Tutto è mistero. Mistero che chiama l'interrogazione suprema: la nascita, la morte.
In queste spire di riflessione avvolto, Morato ha saputo attingere i più alti valori della sua pittura: perché l'uomo era la sua pittura. Il secolo gli volgeva intorno con le sue beghe politiche, con le sue guerre, le sue atrocità, con le sue miserie, e insieme, con le grandi voci europee che passavano nell'aria, alte, sulle poche virtù e i molti vizi, sulle luci e sulle ombre, anche tragiche negli anni di piombo e di fango, di una Padova spenta, spesso ferita, sempre pigramente indifferente. Ed allora si rincasa, si scorge lo moglie con le mani nell' acquaio domestico, si afferro un grande foglio di carta e si dipinge: si dipinge (vedi "Donna all'acquaio, 1951") una di quelle splendide tempere con cui Morato fissava, in gara con le sue tele maggiori, in un rapido volo di segni di straordinaria essenzialità e larghi ritmi spaziali, esaltati da veloci pennellate di colori tonali armonici, l'affettuosa ora della conquista di una immagine d'amore famigliare. E analoga atmosfera si ritrovo in altre opere (di pastellati grigioneri) quali "le due madri" (1952) e l'attonito silenzio di "Convalescente" (1949).
Nell'aria, alte, per lui e per rari spiriti eletti, passavano le grandi lezioni che venivano da Parigi, o da Milano, o dal paradiso dei grandi della pittura. Morato era dei pochi, allora, ad avvertirle ed a capirle, non per imitarle ma per apprenderne a fondo il suggerimento sostanziale.
Miracolo era il fatto di come da anni tanto bui e sconvolti, in una città sonnolenta, egli abbia potuto trarre, rimanendo intatto e creativo, preziosi valori d'arte di alto livello, degni ancora oggi di essere vissuti in proprio e rimeditati.
Dino Formaggio