La produzione incisoria di Ivo Mosele racconta dell’eterna, classica lotta tra caos e cosmos, pulsione dionisiaca e armonia apollinea. L’artista ragiona in termini di «composizione» e «organizzazione» di un impulso che è comunque soggetto principale di una «trama», spesso frutto di una confidenza tecnica in grado di garantire un «sereno procedere». Mosele, infatti, considera «la tecnica non uno strumento produttivo acritico della visione, ma un vocabolario, una grammatica dell’espressione» e ciò trova conferma nel ricorso frequente alla maniera nera, attraverso cui l’artista definisce i bianchi emergenti dal fondo scuro, incidendo anche a bulino le lastre già sensibilizzate da diversi passaggi in acido nitrico (Varchi luminosi, 2005). La manifesta predilezione per il procedimento incisorio, verso cui dimostrò sin dagli anni Settanta un interesse scevro da pause e ripensamenti, si spiega meditando sulle caratteristiche proprie del mezzo, che prevede una matrice aperta a continue rielaborazioni e, potenzialmente, alla creazione di numerosi multipli. La stratificazione di immagini, ottenuta con successive morsure, permette un’elaborazione pausata e graduale della stampa, costantemente verificabile e perfettibile. L’opera di Ivo Mosele richiede perciò una lettura accurata e paziente, proporzionale, si direbbe, alla devozione spesa nella genesi di ciascuna lastra. Ogni foglio va spogliato delle forme godibili in superficie, velo dopo velo, interrogandosi sul motivo della loro presenza, per scoprire infine l’importanza fondamentale della loro assenza. Essenziale è, infatti, il nero ruvido e vivo dello sfondo, in cui pare non si concentri il lento e laborioso operare dell’artista, ma in realtà si specchia la carica genuina della sua psiche. Ne danno prova gli scritti autobiografici, che non sembrano attribuire particolare rilievo alla scelta dei temi raffigurati, «grumi» utili a mascherare, nell’intreccio quasi invisibile delle relazioni reciproche, un’obliterata eppure determinante realtà personale.
Qual è dunque il perno attorno a cui Mosele sviluppa le sue calibrate e impeccabili composizioni? Quale il nodo rivelatore dell’impulso espressivo, tassello insostituibi le per la comprensione del passaggio dall’ispirazione all’opera?
La rimozione di una fase ancora giovanile della sua vita, segnata da una soffocante istruzione religiosa evidentemente contraria alla sua sensibilità, lo spinge a reiterare temi e sistemi della propria ricerca visiva in un eterno ritorno, ora rivisitando se stesso, ora nascondendo l’imprescindibile oltre la citazione di immagini “rubate” al patrimonio universale dell’arte (Guardando Mantegna: la conversazione, 2006) o alla discarica quotidiana di loghi e icone popular (L’ultimo, 2003). Così paramenti sacri, preti e prelati tornano ripetutamente a catalizzare lo spirito contestativo dell’artista, che sovrappone a essi simboli negativi di natura sociale, politica e ambientale (La rotta, 2007). Il senso di «malessere» e «angoscia», scaturito dal rifiuto di ciò che rappresenta di fatto il centro gravitazionale attorno a cui organizza il suo operare, si trasforma pertanto nell’esigenza di «graffiare o lisciare, di mordere o accarezzare la superficie». Una tensione fisica verso il supporto, che risulta arginata dall’intreccio visibile di metamorfosi e inganni ottici -creati grazie all’ambigua stratificazione dei piani -, ma che solo attraverso l’ausilio del mezzo tecnico ottiene infine di essere liberata (Cose nascoste: normalità, 2005). Il succedersi ordinato delle fasi di stampa, il cui esito appare all’artista sempre nella sua reversibilità, incarna il tentativo perpetuo di portare alla luce, con un sorriso di volta in volta canzonatorio e tagliente, quella zona buia su cui Ivo Mosele vuole permanga l’oscurità.
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- Scritto da Chiara Costa
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