«Ecco il mio segreto. È molto semplice:
non si vede bene che col cuore.
L’essenziale è invisibile agli occhi.»
Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe
L’ho visto dipingere tra gli olivi argentati di Ostuni e le palme di Simeri, immerso in un mondo di idee che diventavano all’improvviso colori sulla tela accarezzata dall’azione lenta e sorvegliata della spatola. Alla piccola folla di curiosi che si radunava intorno a lui diceva di Monet, Pissarro, Gauguin cose che risuonavano dentro come una melodia di Puccini. Ma il suo cuore, e i suoi occhi, si accendevano di un aureo bagliore quando dalle labbra fioriva un nome conservato come un tesoro fra i rovelli dell’anima: Vincent Van Gogh.
In quel momento, Nelu Pascu tornava idealmente a stringere il pugno di terra che aveva rubato, un pomeriggio d’estate, sulla tomba del piccolo cimitero in cima alla collina dove il suo mito aveva trovato finalmente pace. E rinvigoriva un rapporto, metafisico e sentimentale, fatto di identica inquietudine, analoghe rabbie, rivalse ottenute per mezzo d8i un’inarrestabile, quanto tardiva, affermazione della pittura.
Il mare, in lontananza riecheggiava altre suggestioni. La Grecia che gli era stata generosa di stimoli in un viaggio vissuto come un’avventura; la Sicilia che lo avrebbe accolto con il suo calore, l’eterna bellezza, l’irresistibile mistero.
Nell’ora più luminosa del giorno, quando tutti erano ormai a pranzo, ne riconoscevi l’ingombrante sagoma fra i tubetti degli acrilici sparsi sul prato e il cavalletto ancora occupato da un grande dipinto. Il volto, incupito, era il presagio di una sfida giunta al suo momento più difficile: un ritratto, un paesaggio, una natura morta, dovevano, insomma spiccare il volo, come quei gabbiani, evanescenti all’orizzonte, che egli aveva inventato, in un cielo striato di bianchi e di gialli, qualche giorno prima.
«Io dipingo già quadri astratti, ma, per fortuna delle mie tasche, nessuno li riconosce come tali», disse un giorno a un ammiratore che gli chiedeva, preoccupato, se questo genere potesse in qualche modo interessarlo. Non conosceva, Pascu, le parole che Giorgio Morandi aveva pronunciato davanti alle sue celebri e polverose bottiglie: sui può dipingere tutto, basta soltanto riuscire a vederlo.
Intanto, il profumo dell’aria si arricchiva di quello che prendeva corpo sulla sua tavolozza, fra i grumi di colore palpitanti di vita e subito ansiosi di farsi tono e luce sulla tela cresciuta con intrigante forza, soluzioni sorprendenti, bave di materia nelle quali udivi riecheggiare il respiro del maestrale che accompagna una vela in mare aperto, il verso dei grilli nascosti fra le spighe dorate di un campo di grano, il frusciare sinistro delle foglie degli alberi in una giornata di tempesta.
Allora l’occhi cadeva oltre i jeans macchiati e laceri di questo pittore che parlava tenendo la mano destra sul cuore, toccati dalla profondità di frasi uscite come per incanto dal grande scrigno della poesia, nelle quali istantaneamente riconoscevi un uomo vero e un artista autentico. E già nel gesto di portare alla bocca l’inseparabile fiaschetta di grappa, scoprivi la torrida certezza che era stata di Utrillo e Soutine prima di lui …
Così, Pascu, si rivelava agli uomini e alle donne di ogni età che lo incontravano per la prima volta, ai molti che, attratti dalla sua figura eccentrica, facevano per avvicinarsi, ignari della scoperta memorabile che stava per attenderli.
A ripensarci oggi, in questa sera di primavera appena iniziata, è un po’ come rivederlo, solitario, mettere in un quadro il senso del tempo che muta i pensieri e le cose, facendo vibrare gli animi più sensibili come successe a lui quella volta in cui, avvicinato l’orecchio al manto terroso che custodisce le ceneri di Van Gogh, ricevette dalla voce del suo maestro la consegna più difficile, l’unico obbligo davvero immutabile: la vita per la pittura.