L’aspetto dell’arte di Cavedon che mi pare meglio la qualifichi, e e che più mi affascina, è senza dubbio l’aspetto di arcana solitudine che essa riverbera. È una cosa che sta a parte, come del resto se ne sta da parte lui stesso, pur non essendo Cavedon un solitario.
Quella di Cavedon è una solitudine, cioè espressione solitaria, anche come originalità; ma così poco vistosa, questa, così poco enfatizzata ed eccitata, così invece flessibile e fluente, accettabile anche quando ci si rende conto che dentro i diversi digradanti aloni d’una luce che dobbiamo accogliere come un lume dello spirito, persuasivo e persistente, le figure che il disegno di Cavedon viene evocando, e accoppia, intreccia, innesta, incastra, sovrappone con un suo abilissimo gioco occulto, stanno a mezza strada tra un evidente richiamo del reale ed il soprannaturale. Sono cioè come messaggeri misteriosi, e spettatori, e testimoni non meno misteriosi di eventi ancora più lontani e misteriosi. A volte come in un gioco di specchi le ambientazioni possono sembrare un riflesso di altre ambientazioni, molto più lontane; figure proiettate su uno schermo a noi visibile da un lume che è situato tra le quinte del tempo e dello spazio, che non è altro che il punto focale, il punto di ribaltamento per cui la solitudine diventa a poco a poco l’infinito. Immagini perfette per le ambientazioni dei racconti di Montague Rhodes James. Ogni ombra che si manifesti nella trama – appaia di notte o di giorno, in una segreta o in una pubblica piazza – deve venire inesorabilmente dal remoto paese al di là degli umani orizzonti. Non sono ammesse né razionalizzazioni né spiegazioni naturali del fantasma. Non tutte le storie del soprannaturale prevedono gli spettri, ma qualsiasi storia di spettri dev’essere una storia del soprannaturale.
Una seconda sensazione, molto precisa, è quella che Cavedon, fin dal principio della sua attività, vada ricercando l’origine di tutte le cose, ch’egli cioè tenti un viaggio molto simile al viaggio tentato da Icaro, avvicinare e raggiungere il sole, la luce, il calore, l’energia vitale del sole, la fonte di ogni cosa che viene alla vita. È questo incognito non raggiunto, e forse non raggiungibile mai punto, o fuoco delle origini che sollecita, assilla lo spirito di Cavedon come il luogo remoto dal quale giungono tanti richiami e l’invito persistente a mettersi in viaggio, a sollevarsi dal piano del reale per immettersi in un livello in cui le cose della terra diventano altro da sé: un disegno, un colore, anzi una luce, un’idea, cioè una forma che ha perduto il suo peso, le sue imperfezioni, in una parola la sua vecchiaia. Tutte le cose della terra tornano così al punto di partenza, all’inizio della loro probabile materializzazione, al punto oltre il quale l’esperienza, l’impatto duro e dolente con la realtà avrebbe dato un nome: tornano quindi alla bellezza ineffabile della loro infanzia.
Un viaggio, quello di Cavedon, che dura da quasi trent’anni e si sviluppa nei due sensi opposti. Di tanto infatti si allontana dalle presenze concrete, dalle oggettivazioni temporali e della pelle delle cose della terra verso l’esterno, verso la remota stella fissa che manda incontro a Cavedon il suo raggio di luce, di tanto si allontana verso l’interno, ad esplorare, seguendo quel filo di luce che è come il raggio d’un laser, tutta la dimensione del profondo.
Unicità della luce, ma anche unicità del colore, che è sempre lo stesso nelle variazioni che può assumere tra il momento dell’alba e il momento in cui la notte è realtà.
Nonostante, infine, che nelle opere più recenti si riveli un desiderio sinora inedito di strutture regolate da una misura, e almeno da un ritmo architettonico, la pittura di Cavedon è un’azione drammatica. È l’espressione accorata di un racconto che si sviluppa fuori dal tempo e dallo spazio conosciuti, perché Cavedon ha reciso ogni legame con un presente storico, che gli può offrire soltanto situazioni e figure bloccate, coagulate, cristallizzate estranee quindi al suo sentirsi vivere in un continuo farsi, in un continuo e doloroso nascere. La pittura di Cavedon illustra infatti un mondo che non ha ancora operato le sue scelte, che perciò non ha ancora tradito la sua originaria destinazione ed è ancora tutto disponibile, tra incantamenti ed allarmi, e consente di prevedere, almeno come segnali, le figure che oscuramente aspettano di veder comparire.
Il discorso di Cavedon si sviluppa lungo un itinerario che segue puntualmente, anzi ricalca con estrema minuzia le modificazioni, anche le semplici fluttuazioni delle idee dell’artista e dei suoi sentimenti. Delle forme, anche, intorno al loro nucleo centrale, dal momento in cui Cavedon individua gli elementi primari del suo repertorio, le città, gli interni che ricordano ambientazioni alla Emma Ciardi, le fanciulle alla David Hamilton. Proprio nei delicati nudi femminili vengono espresse tutte le qualità proprie della sua sensibilità artistica, fuse in una dicotomia che si fa armonica in quel complesso di luce sfumata e incerta nelle tonalità crepuscolari, di intima penombra, di riservato pudore e di totale abbandono da parte della “fanciulla adolescente”. Il simbolo perfetto della bellezza allo stato puro, non ancora contaminata dal mondo adulto – che è di per sé un’opera d’arte – è catturata in immagini dal retrogusto morboso, in cui ogni atteggiamento perde di spontaneità, con richiami a Balthus ed ai racconti di Anne-Marie Villefranche.
Cavedon prepara le sue tele spalmando sul fondo un leggero strato di pittura ad olio che asciugando lentamente gli permette di lavorare velocemente con la tempera e rifinire con l’acrilico, quindi è in grado di moltiplicare le tracce fuggevoli di pennelli poco intrisi di pigmento: alle sfregature si sovrappongono le velature, poi di nuovo delle sfregature a ancora delle velature, parecchie volte durante il corso dell’esecuzione dell’opera, e questa accumulazione dà luogo alla tessitura della materia pittorica e alla rifrazione luminosa del colore; il tessuto materico e la luce del colore sono dunque ottenute attraverso l’accumulazione.
Non si tratta di rispettare non si sa quale pseudo-profondità, ma di lasciar giocare le infinite virtualità della pittura nelle due sole dimensioni che gli appartengono. A questo punto, numerosi sono i conflitti da risolvere: le «prospettive» eventualmente suggerite devono essere immediatamente integrate nel principio generale della composizione, un po’ come Beethoven che nella «Grande Fuga» si trovava alle prese con l’antagonismo del contrappunto «orizzontale», continuamente tentato di sottrarsi alla «verticalità» dell’armonia.
Ma, laddove Cezanne, per sottrarsi all’imperiosa legge della terza dimensione, carica gli oggetti e il cielo della stessa intensità cromatica, affermando implacabilmente la superficie e proclamando l’avvento di artisti che finalmente potranno liberamente «dipingere la pittura e non quello che essa dipinge», Cavedon dal canto suo capovolge la proposizione iniziale e, invece di dare ai cieli il peso degli oggetti, conferisce invece a questi ultimi la trasparenza dei cieli.
Forme, che apparivano suscitate dal fulgore della luce e che si aprono alla luce; che respirano, crescono, si accumulano, si annuvolano seguendo ellissi e sinusoidi ascensionali; che esplodono in raggiere barocche, brillanti come reliquiari e ostensori. Luci colorate che per mezzo di impalpabili e impercettibili modificazioni del tono o della quantità e qualità della loro trasparenza, qualche volta anche con improvvisi risvolti specchiati e specchianti, svariano passando dai bianchi appena screziati ai gialli. Con mano leggera, quasi come un sospiro all’interno di una lucida eccitazione, Cavedon disegna le mappe del regno della sua visionarietà e traccia le linee segrete di un itinerario che sfiora gorghi, voragini, abissi profondi ed apre improvvise, folgoranti fughe prospettiche, proiettate a volte verso distanze senza fine, altre volte invece graduate come una lenta proliferazione o gemmazione o infiorescenza di suggerimenti visuali, e sono quasi soltanto dei trasalimenti visuali.
Ogni immagine creata da Cavedon può essere detta barocca, in quanto il barocco rappresenta tutta una filosofia della vita, nata con Michelangelo e col Rinascimento. Ma questo barocco non ha nulla a che fare con l’atmosfera artificiosa che potrebbe inventare un regista moderno, ben attrezzato di sapienti illuminazioni sceniche. La luce in Cavedon non è «teatrale»: ovviamente non naturalistica, essa si ordina in sequenze che scandiscono le varie fasi dell’azione e sottolineano l’interna dinamica di ogni opera.